Le certificazioni volontarie di prodotto, spinta verso la GDO
SGQ: strumento per aumentare la fiducia del consumatore e superare con maggior sicurezza i controlli ufficiali
Per gli italiani, il cibo rappresenta la voce di costo di maggior interesse: i prodotti devono essere freschi, di qualità e provenienti da filiere corte. Secondo il Rapporto Coop 2020, solo il 31% degli intervistati si accontenta di acquistare prodotti confezionati di largo consumo (dato inferiore di quasi 20 punti rispetto all’anno precedente).
Oggi più che mai, le aziende del Food&Beverage hanno una doppia responsabilità: oltre a fornire prodotti conformi agli standard nazionali e internazionali sulla sicurezza alimentare, devono tutelare provenienza e sostenibilità della materia prima, garantendo caratteristiche organolettiche e nutrizionali di altissima qualità. Come fare dunque a rendere questo processo più semplice e trasmettere al cliente finale il valore aggiunto?
Certificazioni volontarie
Nel mondo agroalimentare esistono molteplici certificazioni: certificazioni volontarie di prodotto (DOP, IGP, SGT, Biologico), certificazioni di sistema (tra cui spicca la ISO 9001) e certificazioni di processo (BRC, IFS, FSSC 22000). Queste ultime nascono sulla spinta propulsiva della GDO che, con l’ampliarsi dell’offerta a scaffale con prodotti a marchio (private label), necessitava di uno standard igienico-sanitario idoneo a valutare la qualità dei fornitori e dei loro prodotti.
Andando oltre i requisiti della normativa cogente (ad esempio MOCA, HACCP), l’azienda che sceglie di certificarsi ottiene molti vantaggi: tutela le materie prime e i prodotti finiti da manomissioni volontarie esterne (Food Defense), protegge il proprio marchio da frodi alimentari e contraffazioni (Food Fraud), accede a nuove quote di mercato su piazze di scambio internazionali, aumenta la fiducia del consumatore (Brand Equity) e, non da ultimo, supera le ispezioni obbligatorie con minor onere organizzativo e finanziario.
Certificazioni oltre alle norme: quali vantaggi
Agli occhi del Legislatore, superare l’iter di certificazione significa dimostrarsi proattivi nei confronti dei requisiti cogenti. Nel Reg. CE 625/2017 relativo ai controlli ufficiali, vi è uno specifico richiamo ai “regimi di qualità privata” quali indici di riferimento per l’esecuzione dei controlli ufficiali. Ciò significa che, in fase di ispezione da parte degli organi competenti, la certificazione volontaria concorre a dimostrare la conformità dell’operatore alla normativa in materia di sicurezza alimentare, senza ulteriori oneri.
Questo perché gli schemi di certificazione BRCGS, IFS e FSSC 22000 richiedono all’impresa della filiera agroalimentare di soddisfare requisiti molto più stringenti rispetto alla normativa cogente e quindi sono valutati come fattore di buona “due diligence” dell’operatore, anche nell’ambito di un’eventuale difesa di natura amministrativa o penale.
Oggi, certificarsi significa non solo poter accedere alla GDO e amplificare il volume delle vendite, ma anche stringere accordi con la Pubblica Amministrazione e altre istituzioni attente ai requisiti di Compliance aziendale, aumentando al contempo rating e credibilità aziendale. Senza dimenticare che, come riportato dall’Osservatorio Accredia, “nell’ultimo decennio le aziende con un sistema di gestione certificato hanno mostrato un livello di efficienza (misurata come rotazione del capitale investito) strutturalmente superiore alle non certificate”.